La classe era nella penombra.
Le tapparelle abbassate.
O forse è l’immagine sfocata dei miei ricordi a rendere tutto più grigio, sfumato.
Non il suo volto. Pallido, ma gli occhi vispi, grandi, sui contorni di ragazzina.
Il mio quaderno poggiato sulla cattedra e le mie parole tremanti dove le chiedevo se le sarebbe piaciuto leggere i miei pezzi. Leggermi.
Era la mia professoressa d’italiano, quella che additavano come “la strana” perché aveva idee allegre, perché saltellava quando aveva nuovi progetti, lei che invece di stare con i suoi colleghi preferiva fumare in cortile con quelli di quinta.
Michela. Così cominciai a chiamarla anni dopo aver lasciato l’aula della mia classe vuota, quel martedì di aprile in cui decisi di mollare tutto e andarmene. Per sempre.
Lei che mi disse quel mattino, mentre fuori pioveva a dirotto: “non importa, vai e segui comunque la tua strada, noi sensibili non verremo mai capiti.”
E ora alzo gli occhi al cielo e posso dire ancora un po’ che ha ragione, ancora un po’, perché non è mai abbastanza la ragione che le darei.
La ritrovai tre anni dopo grazie a Facebook e neppure mi salutò, mi chiese subito se ancora scrivevo, se non avevo perso quella bella abitudine di lasciarmi andare, di fare uscire me stessa e sorridendo le scrissi di no, ma ho il rammarico di non averle mai detto che era stato merito suo.
Due anni fa se n’è andata a poco più di quarant’anni. Imbattermi nell’articolo di giornale in cui dicevano del suo viaggio senza ritorno, mi ha rotto in mezzo al petto delle convinzioni e il non poter più dirle del mio progetto portato a termine, non poter più condividere con lei la mia felicità, l’avercela fatta a concludere un lavoro che mi vedesse padrona di me, mi ha dato più forza, non mi ha chiusa ma mi ha dato la carica, sapevo che lei aveva tanti progetti e la malattia fulminante non le aveva permesso di continuare nulla, quindi perché fermarmi e avere paura?
Il 16 aprile io ho pubblicato il mio libro e lei era andata via l’8.
Non riesco a scrivere diversamente, per me lei ha intrapreso un viaggio in un paese delle terre antiche, quelle della storia che ci raccontava con enfasi.
Ricordo le sue vampate di calore appena la primavera cominciava a scaldarsi, le sue unghie cortissime, la frangetta tagliata storta e che sbatteva indietro con un gesto nervoso della testa, non si truccava mai e portava anche con naturalezza i primi capelli bianchi che non avrebbe mai coperto con tinte insieme a quelli che sarebbero seguiti.
Michela e l’amore per i gatti, in quella piccola casina a Cremona, nella sua città natia, dove mi recai un pomeriggio di settembre per recuperare il mio quaderno colorato nel quale custodivo i miei pensieri. Ora li metto per iscritto qui e lei da chissà dove lo sa; proprio lei che nelle nostre corrispondenze cartacee mi scrisse che non usava più la penna se non di rado, perché scrivere al computer le risultava più veloce e fluido.
Non ricordo più la sua voce, qualcosa purtroppo sfuma sempre di chi ci ha lasciato. Di lei mi piacevano gli occhi lucidi per lo stupore alla vita, lei non aveva vergogna di raccontarsi anche spogliandosi di sé. Non sapevamo nulla del suo privato ma per me era come aver già letto mille delle sue storie.
Prima che diventasse mia professoressa, imbattendomici nei corridoi la scrutavo di sottecchi, sembrava immersa in un mondo fatato e poi ho capito cos’era: un modo di vivere per farsi scudo alle cattiverie che la volevano un personaggio e non persona.
Un paio di anni dopo le nostre corrispondenze si trasferì a Bologna. Voleva essere estranea, voleva essere vita in un altro luogo.
Avrebbe cambiato ancora meta.
Avrebbe…non ha potuto e allora mi permetto io di farla viaggiare.