Mani rosse

Un tavolo bianco.

La finestra dai contorni di legno chiaro.

Intravedo un palazzo vecchio oltre i vetri.

La città di Cremona, la tua.

Due rampe di scale per salire da te e tante immagini di gatti per casa, calendari, soprammobili.

La tua voce, le mani poggiate al mio quaderno.

Tu.

Ti ho immaginata mentre nel buio del tuo salotto, leggevi i miei libri e sorridevi, spostandoti il ciuffo dalla fronte.

Ti ho vista mentre sfilavi gli occhiali per asciugarti gli occhi e le gambe piegate sotto alla coperta, con le ginocchia al petto.

Ti ho disegnata dentro di me nella tua casa che vidi realmente in quel settembre ormai lontano, dopo un viaggio in treno.

Ho immaginato le tue mani rosse accarezzare le pagine di quegli scritti che per alcuni versi hai conosciuto. 

Il bisogno di sentire quello che hai ancora da dirmi.

Ora sento violento l’abbraccio di quel pomeriggio. 

“Non smettere mai di scrivere Debora!”

E mi chiedo perché allora io smetta di farlo, se non importa che gli altri mi leggano, perché lo faccio per me. Ma smetto, perché spesso le emozioni sono così violente; come la pioggia che c’era quel martedì di fine aprile quando venni in aula a dirti che non ce la facevo e dovevo lasciare tutto.

Avevi così tanti progetti…

E anche se passa il tempo, io ho bisogno della mia prof.

Anche se ormai ti chiamavo per nome da anni.

Tu mi hai guardata dentro agli occhi mentre stavo male, non ero più io e avevo così tanta paura di perdermi, perché il dolore può fare quello, crea un disordine interiore notevole.

Non mi hai lasciata, mi rispondevi alle lettere, poi ai messaggi. Fino a che la mia vita mi ha portata a nuovi progetti e nel vuoto di un pomeriggio ho scoperto che non c’eri più.

Anche se non è vero.

Anche se giorni fa ho trovato una tua cosa, navigando in rete qua e là, come un segno, come se ancora come quel pomeriggio di fine estate mi dicessi ferma e decisa di non smettere e di farmi forza. Di prendere carta e penna o di mettermi davanti al pc e fare uscire ciò che porto dentro e sapessi ora quanto c’è dietro quel muro che credo di aver eretto.

Un segno portato da te o un caso così improvviso. 

Mi pare di vederti poggiata alla colonna di quella scuola che non esiste più, fumare sorridente e scuotere la testa.

Maledetta malattia!

Sarei venuta a trovarti, avrei sentito la tua opinione su tutto quello che sta accadendo attorno a noi in questo periodo, ti avrei portato i miei libri di persona, li avrei poggiati su quel tavolo bianco mente preparavi un caffè e lo versavi nelle tazze con i gatti disegnati. 

E ti avrei guardata mentre leggevi quella frase dedicata sulla prima pagina in quel mio corsivo stretto e tremolante. 

“A Michela, perché mi ha insegnato a non avere timore di guardarmi dentro.”

Così. 

Ci riproverò.

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2022-02-07T16:26:37+01:00