Sento la pioggia picchiettare lentamente.
Una cantilena che mi si affianca nel buio della notte.
La stanza fredda, composta, come se dovesse rispettarmi, mentre sento l’illusione beffarda che queste ore possano accompagnare un domani diverso.
Ma da quanto tempo non arriva domani?
Da quanto tempo non sorge il sole?
Da quanto tempo non mi sento più la pelle coprirmi il viso, lì dove tu da piccolo mi accarezzavi piano prima di chiudere gli occhi e addormentarti?
Da quanto tempo non sento più le campane suonare a rintoccare le ore?
Si è fermato tutto, dentro questa vita che ormai non è più una vita.
Perché ci sono solo martedì per me, perché da otto anni non esistono altri giorni, non esiste il citofono che suona e io che rispondo per aprirti il cancello.
Non esiste più la pazienza nel dirti ogni volta di riordinare i vestiti che io poggiavo sulla cassettiera nella tua camera.
Non sei più tornato e quello che io attraverso è una sostanza dilatata, non è un periodo, non è un momento, non è un giorno, è solo un film di cui non volevo fare parte.
Tuo padre mi dorme accanto, così stretto nella sua rassegnazione che mi irrita la sua calma, la sua compostezza, anche quando mi abbraccia e cerca di consolarmi.
Ma io non voglio essere consolata. Io voglio solo sapere dove sei.
Mi basterebbe questo.
Mi basterebbe sapere che sei vivo.
Altrove, lontano, felice, appassionato, speranzoso, ma che vivi.
E invece da otto anni non so più nulla di te.
La disperazione di quei giorni resta attaccata alle mie dita come scarica elettrica, la paura di una telefonata gelida era un coltello puntato alla gola, i telefoni bombe a orologeria che si disinnescavano ogni volta che la voce dall’altra parte chiedeva se avevamo avuto notizie o una persona delle forze dell’ordine ci avvisava che non avevano trovato nulla.
E poi c’erano quelle parole, quelle mezze speranze che mi davano uno spintone, forse eri stato visto a Padova, forse eri salito su un treno.
Forse. Quella parola costante che mi rimbomba nelle orecchie come un martello pneumatico.
Vorrei avere la certezza e invece non ho in mano nulla. E’ così straziante ciò che provo, è terribile sentire la disperazione salire alla gola e premere fino a farmi urlare e non respirare. Non è più trascorso un giorno, io sono ferma lì, a quella sera in cui tu non hai fatto rientro dopo la palestra. Sono rimasta ferma in cucina a impanare il pollo, sono ferma al prima e continuo a riavvolgere il nastro di quegli istanti sperando di ricordare qualcosa che possa portarmi alla verità e purtroppo più ci penso e più dimentico e ho paura di non riconoscerti se un giorno tornerai da me.
Ora sei un uomo Andrea. Avrai la barba, le mani forti e quel meraviglioso sorriso di cui non potevo fare a meno, incancellabile. Ti immagino altrove, in un posto bellissimo, innamorato, preso dai tuoi sogni, a ridere e scherzare con nuovi amici, anche se qui ne avevi tanti, eri il leader del gruppo, ti piaceva invitare persone a casa, stare in garage a giocare a biliardino con Massimo e Gianluca e io da sopra vi sentivo ridere.
Quando accenno queste mie fantasie a tuo padre si arrabbia, lui ti pensa morto da qualche parte lo so, ma io non lo accetto, io non ti sento senza vita, ma dentro di me ti sento ancora chiamare “mamma”.
Non piango più, i primi momenti era un inferno, adesso sono spenta, apatica, indosso una maschera con gli altri ma io non passa istante che non ti venga a cercare, continuo incessante nelle mie ricerche, spulcio i social nella speranza di cogliere qualcuno che ti somigli, seguo le pagine che già seguivi tu, guardo i tuoi contatti se hanno persone nuove che possono riportarmi a te. Sarò una sorta di stalker ma non so cosa voglia dire lasciar perdere, andare avanti, io non so cosa voglia dire alzare la testa e non vederti negli occhi degli altri.
Dovevi finire la scuola, volevi diventare un infermiere, volevi aiutare gli altri, continuare a giocare a pallavolo e invece…
Qui ha smesso di piovere, il sonno questa notte non vuole essere clemente, allora mi alzo. Faccio quello che faccio ogni volta che non riesco a scivolare nel buio: vado in camera tua.
Entro piano come se tu fossi oltre la porta sdraiato a letto, cammino lenta e mi siedo alla tua scrivania. Ho lasciato tutto come quel giorno. I libri, i quaderni, lo zaino e il tuo cellulare. Perché sì, lo lasciavi a casa ogni volta che andavi in palestra, avevi paura te lo rubassero. Lo avessi avuto con te gli inquirenti avrebbero potuto rintracciarti e invece sei sparito nel nulla.
Con chi sei andato, con chi ti sei visto, perché non posso sapere dov’è mio figlio?
Perché non hai scritto nulla tra queste pagine di quaderno, se non calcoli e il diario pieno di frasi sciocche?! Eri un ragazzino come tanti altri, cosa è successo quella notte?
Vienimi incontro Andrea, fatti vivo con tua mamma, lo sai che io i segreti li so mantenere!
I carabinieri ipotizzarono pure un giro di droga, oppure la prostituzione giovanile. Sei sempre stato bellissimo, anche la cosa più macabra poteva essere plausibile, ma non che io non possa sapere dove sei. In alcuni momenti invidio chi può avere anche solo una tomba su cui piangere il proprio figlio, una sorta di pace dei sensi anche se il dolore resta comunque devastante perché un genitore non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio, ma noi genitori di figli scomparsi come facciamo? Ma perché tutti ci abbandonano? Perché? Tanto se le piste non portano a niente, il caso resta lì poggiato su una scrivania e quel foglio si deposita sotto la polvere degli eventi che si susseguono e a e chi importa? Non è il loro figlio a non aver più fatto ritorno a casa, invece loro aprono la porta e si trovano davanti delle cotolette impanate e croccanti, cosa che tu quel martedì 13 ottobre 2015 non hai fatto.
Sedimenta dentro di me il vuoto, una voragine.
Non mi darò mai pace, eri e sei la mia vita. Ti ho donato il mondo una sera di tanti anni fa e non posso arrendermi a qualcosa che non ha una concretezza.
Prendo un foglio dalla risma che tenevi nel primo cassetto e rovistando nel tuo astuccio mi impossesso timidamente di una penna nera.
La luce che illumina la scrivania mi ricorda le sere in cui ti trovavo ancora piegato sui libri a studiare per la verifica del giorno dopo e ora ci sono io seduta al tuo posto, istintivamente provo a scriverti una lettera, non ho mai pensato di farlo prima e non so se ci riuscirò.
La penna ci mette un pò a fare uscire l’inchiostro, fermo da troppo tempo, ma poi prende coraggio, mi dà una sorta di speranza, come se il tempo potesse in un altro modo ricominciare a scandirsi.
“Caro Andrea,
Stanotte i pensieri si affollano nella testa e non riesco a prendere sonno.
Non è una novità naturalmente però non so che mi è preso e ho deciso di scriverti due righe.
Magari domattina vado a comprare un francobollo e poi imbuco questo foglio.
Hai presente quelle scene da film?
Magari la lettera viaggia un pò e poi ti raggiunge sebbene non ci sia scritto alcun indirizzo.
Oppure la legge qualcuno che ti ha incontrato o visto di sfuggita.
Tento, chi sa come va a finire. Le ho provate tutte in questi anni così lenti e febbrili che ormai non mi sento più neppure ridicola anche se sicuramente lo sono. Tu ti saresti fatto una grossa risata e mi pare di udirti proprio ora, anche se la tua voce che sento è ancora quella di un ragazzino.
Sono invecchiata, ho i capelli arruffati, circa tre anni fa ho deciso di tagliarli corti e di non tingerli più. Sfido lo specchio con smorfie strane, coloro le labbra con rossetti rossi che riflettono anche sulle guance, sono ancora giovane ma dentro il fardello è pesante.
Un pò come gli zaini che riempivamo per fare trekking in montagna, ricordi?
E i panini imbottiti? Facevi a gara con papà su chi li finiva prima.
Andrea. Ci sei più stato a San Candido? Hai visto ancora i caprioli?
Papà ed io ci siamo stati anche la scorsa estate, siamo passati anche a trovare il Peppo e Matilde, non ci hanno chiesto nulla di te, come tutti gli altri, sicuramente per pudore o per paura di rompere i nostri equilibri apparenti. Invece mi farebbe piacere sentire ancora il tuo nome in bocca alla gente che sapeva chi eri, chi sei. Perché lo so che non si sono dimenticati di te.
E chi se lo dimentica il mio ragazzo alto, biondo e occhi verdi?
Io no, non potrei mai.
Ti amo di bene Andrea mio.
La tua mamma”
Poggio la penna e fisso quelle parole scritte di cuore, in un corsivo stretto, frettoloso, un pò tremolante. Il silenzio in questo momento è un abbraccio, non sento neppure freddo, sebbene non abbia infilato la mia vestaglia di pile. Mi avrai sentito. Oppure ti sei svegliato anche tu o starai lavorando e hai scorto una stella oltre il cielo nero di questa notte. La mia coscienza mi dice di smetterla, ma poi si ricrede, una madre ha bisogno di non arrendersi.
Piego il foglio, lo tengo stretto tra le mani, torno in camera da letto, tuo padre dorme come sempre aggrovigliato nelle coperte, mi avvicino piano e gli dò un bacio sulla tempia. Per fortuna non si è accorto io mi sia alzata, oppure mi lascia fare, perché la rassegnazione è più una sua caratteristica che una mia. Anche quando eravamo fidanzati mi assecondava, ero io il vulcano della coppia, quella che non si stancava mai, di notte a contare le stelle fumando una sigaretta in pace. Beata gioventù, quando ero ignara del futuro che avrei avuto.
Mi sdraio e infilo la lettera sotto al cuscino, io che in un angolo di me tengo ancora stretta la ragazzina con la testa un pò tra le nuvole, immagino che mettendo queste parole qui sotto, io possa sognare la verità.
Sognare te che mi indichi la strada e domani io possa venire a cercarti.
Una sorta di magia, come quella che si legge tra le pagine delle favole. Potessi avere una bacchetta magica, calmerei questa mia disperazione.
Mi giro sul fianco, mi abbandono alla notte, mi abbandono alla cruda realtà, per ora.
Perché domattina ricomincerò a rincorrere la verità.
Ad aspettarti, Andrea.
(Racconto con cui ho vinto il concorso letterario “Quei 100 passi che non finiscono mai” nella serata del Premio letterario ed artistico “Primavera è donna 2024” in data 11 maggio, arrivando al quarto posto)