“Vienimi a prendere che è tardi!”
La pioggia gli bagna il cappuccio di quel giubbotto verde militare che gli arriva alle ginocchia.
Il ciuffo di capelli che fa capolino, ma ormai si adagia sulla fronte e gocciola sul naso.
La tettoia è troppo stretta.
E piove.
Piove forte.
Dentro una scena che io immagino.
Dentro un racconto che faccio mio, perché ci sarebbe stato di sicuro un giorno come quello, perché lo abbiamo vissuto tutti quel momento di attesa sotto la pioggia.
Lì, fermi, ad aspettare chi ci sarebbe venuto a prendere.
Le mani fredde e quell’autunno capriccioso.
Il suo compleanno.
A casa ad aspettarlo una torta casalinga, fatta da mamma, la sua mamma.
Io.
Questo silenzio assordante mentre ancora tutti gli altri dormono, mentre la testa mi duole, mentre le prime macchine del mattino passano lente sull’asfalto umido, mentre è trascorso un altro anno e oggi sarebbe stato il suo giorno.
“E’ buona!” E mi guarda.
Si è infilato il pigiama, dopo la doccia calda, perché la pioggia un pò entra dentro anche le ossa, i capelli cotonati dall’aria del phon, le briciole ai lati della bocca, gli occhi vispi e la voglia di raccontare.
Sarebbe somigliato a me in questo.
Nella voglia di dire.
Lo guardo, dentro, lì dove lo potrò tenere sempre, nella fragilità della mia fantasia che diventa un nido dove lo posso proteggere.
Dove in realtà proteggerò sempre me, perché un figlio rimane sempre tale anche se non si stringerà mai e quindi lo disegno come mi va, anche in quei difetti che avrei amato, anche in quelle urla lungo la scala, anche nelle porte sbattute.
Non sono mai riuscita ad immaginarlo da piccolo, è sempre grande, nel pieno della sua adolescenza.
“Mamma cosa guardi?” E sorride.
E’ felice.
E lo sono anche io ora mentre penso davvero a quale torta impastare, perché un compleanno va sempre festeggiato, sempre, in qualsiasi modo, anche se resta dentro.
(19.11 A te.)