Salgo le scale e appena apro la porta che dà sull’anticamera mi invade qualcosa di gradevole.
È come quando ti chiedono quali sono i profumi a cui sei più legato e che ti riportano all’infanzia, così le prime cose che ti vengono in mente sono gli odori della cucina, gli aromi degli impasti, delle domeniche lente, della tavola da imbandire appena tornati da messa, ma solo una volta tolti i vestiti buoni. Quelli che la mamma cuciva con tanta pazienza e precisione.
Faccio qualche passo e sento la televisione accesa come sempre, da sottofondo alle mansioni di ogni giorno, fedele compagna dentro alle giornate, come la radio di un tempo, resta lì in un angolo a trasmettere immagini, notizie, con un’occhiata ogni tanto da chi passa di lì.
Profumo di casa e di tutto quello che non cambierà mai, di come la spontaneità la fa da padrona tra queste quattro mura dove sono cresciuta e dove quando torno sento una pace interiore che non ha eguali.
Non baratterei nulla di questo posto per un altro luogo inadatto ai miei ricordi.
La cascina. La terra. Il prato. La ghiaia.
I trattori sotto al porticato. I gatti riuniti vicino alla porta di casa in attesa della pappa.
Il pollaio con il brusio delle galline che becchettano qua e là.
Gli alberi a riparo o a contorno.
L’orto un pò nascosto a portare nuovi frutti cimelio sulla tavola della prossima estate.
Tutto qui mi riporta l’infanzia, il tempo lento, le chiacchiere, la bellezza della compagnia, del via vai di persone, di amici, di racconti.
Sento il vociare che cerca di sovrastare il trambusto dei motori delle macchine agricole accese, vedo i pomeriggi infiniti tra faccende in casa e poi prima di cena le annaffiate senza fine agli innumerevoli vasi e alle piantine neonate di insalata e pomodori.
Quanta bellezza in questo nostro regno in paese.
Un sogno che resta tale anche se è stata una vita dura per voi genitori miei.
Ci salutiamo, voi già presi dalle marachelle di Ercole che vedete una volta a settimana e avete voglia di respirare il suo entusiasmo ed è in questi momenti che vedo quanta dignità si nasconde dietro ai vostri sorrisi calmi, sazi di tutto quello che avete stretto tra le vostre mani.
I sacrifici di anni, le notti iniziate presto con il sonno che cercava di ridare energia e le levatacce ancora prima dell’alba per andare a mungere le mucche.
Ti vedo ancora lì papà, stretto nella blusa e nei pantaloni blu, con il cappello calato in testa e gli stivali sempre ai piedi, a controllare che tutto fosse perfetto, in ordine tra le pezzate che trattavi con amore, come donne da accarezzare.
Il sorriso sul tuo viso, colorato dalla scintilla dei tuoi occhi blu, umile volto della mia vita che mi hai insegnato e mi insegni la semplicità dell’essere, della ricchezza di spirito e della sostanza di ciò che si ha senza voler desiderare quello che non può appartenerci.
Dentro ai tuoi racconti non sento mai la stanchezza di una vita colma di lavoro manuale, ma trapela solo una serenità che è un regalo per noi figli.
Ti guardo e non vedo ora un uomo anziano, solo un grande uomo che non ha mai visto il mondo, ma quella volta che ha intrapreso un lungo viaggio è andato a prendersi un pezzo di vita.
Sei andato ad incontrare una ragazza, a scivolare in una storia che ora dura da cinquant’anni e che per me resterà la miglior favola da leggere che ancora non è stata scritta.
La dignità degli scorci di istanti assieme che ridono lungo le vostre rughe, come in quei momenti che comunque siete riusciti a superare sempre, mettendoci un pizzico di leggerezza e mi chiedo questa domenica, nella mia testa, mentre apparecchiamo la tavola, se non sia stato questo il vostro segreto, il vostro incastro.
La chiamo magia nella mia ingenuità che resta incastonata sotto la me ormai donna, un tassello importante rimasto alla base di tutto, il non credere fino in fondo che in quel lontano dieci giugno 1973 voi vi siate incontrati la prima volta.
Quel tuo viaggio papà lungo più di dodici ore su un treno con i sedili marroni e quei quadretti dallo sfondo sbiadito che ripercorrevano paesaggi a china, i racconti e il vociare di chissà quanta gente in cerca di destini e la valigia di cartone verde che avevi già usato anni prima per la leva militare. Un viaggio che forse non avresti mai fatto se dietro non ci fosse un destino già scritto, ma che ancora non conoscevi perché lo avresti annotato nel tempo, ignaro così quella notte mentre i chilometri scivolavano lungo le rotaie.
Quel giorno indossavi la camicia a quadretti sulla pelle già ambrata dai lavori nei campi e la semplicità del tuo essere che non ti ha mai abbandonato come un bracciale scintillante.
Caratteristica preziosa che resta tuttora parte di te, anche oggi che indossi una camicia di flanella scozzese sotto al maglione e io ti prendo in giro perché fuori fa già caldo e tu invece sei imbacuccato.
– Me sto be cusè.- Dici nel tuo dialetto intanto che la mia testa riprende con le immagini di un tempo che io non ho vissuto, ma che i vostri racconti hanno reso così limpidezza essere quasi scene di un film.
Mamma che scende le scale dopo sua zia, tu al fianco di suo zio che era venuto a prenderti in stazione, i vostri primi sguardi con quelle due persone sconosciute vicino.
Mi chiedo come si trovi il coraggio di fare questo salto. Sarà la curiosità che supera anche l’imbarazzo e il desiderio di vedersi una persona nuova davanti, di innamorarsi, di sentire il cuore sgorgare.
Perché vi siete guardati ed è stato subito giorno.
Il primo giorno di una vita assieme.
Non aver paura di mostrarsi per come si è, la tenerezza di sedersi vicini per la prima volta, essere accolto nella famiglia di mamma come se ne facessi parte da sempre, il tuo cuore ai confini dei tuoi occhi. Sincero. Tu.
Vado a ritroso raccogliendo le parole dei vostri racconti emozionati dentro gli anni che mi appartengono, non avete mai nascosto chi siete stati anche dentro gli imbarazzi, vedo le lettere che vi scrivevate venire recapitare, vedo le tue mani dopo una giornata di lavoro pesante adagiarsi come piume sulla carta per scrivere alla tua Domenica.
Parole dolci, delicate, in quel corsivo stretto, preciso.
Accarezzo con gli occhi tutti quei fogli che hanno attraversato l’Italia, dalla Lombardia alla Calabria, sono corse lungo perimetri come hai fatto tu almeno tre volte durante quei tre mesi, prima di arrivare all’altare.
La purezza è il tassello più importante del vostro rapporto, mai un filtro, mai una bugia, tutto messo in tavola davanti a noi, dolori e gioie, difficoltà e conquiste. La purezza dei gesti, dell’essere se stessi con chi vi conosceva, davanti ai nuovi incontri, con estrema bontà.
Buoni, umili, semplici come la terra fertile che avete fatto scorrere tra le vostre dita prima di una semina. Le idee per i vostri progetti prima piccoli e poi importanti, come i germogli del grano nel campo dove a fine stagione ci trovavamo tutti a raccogliere le pannocchie.
Quanto ci sarebbe da raccontare, quanti istanti incastonati in questo tempo, dentro i passi di un uomo che sembrava instancabile, ma poi alla sera chinava il capo sul piatto vuoto perché il sonno bussava feroce.
Quanta tenerezza oggi tra i tuoi capelli bianchi e il viso così identico a quello di tua madre.
Papà, sono così orgogliosa di te. Della vita che hai vissuto e ci hai donato.
Così piena di tramonti visti dal cortile della stalla mentre tu finivi di lavare la mungitrice.
Sento i profumi dell’erba appena tagliata, dl grano appena colto, della paglia asciutta.
Di vita.
Di quel ciclo lungo mesi, anni che a rotazione riproponeva sempre gli stessi lavori, dalla semina, alla mietitura, ma la soddisfazione sorvolava sopra ogni gesto fatto quasi in automatico. La terra si sa è come un figlio, ma che ogni anno rinasce.
Il prendersene cura, aspettare che produca, gioire dei frutti e a volte rimanerne anche delusi.
Ci hai insegnato l’arte dell’attesa.
Ci hai insegnato l’amore.
Tu insieme alla mamma ci avete insegnato a prendere ogni piccola occasione come preziosa, anche quella più debole, più difficile.
Guardo così i vostri momenti diventati ora lenti, a tratti deboli per via degli anni, con prezioso sguardo. Dentro questi istanti e dentro questi profumi di casa non ci sono più gli incastri frettolosi degli anni addietro, ma la bellezza della calma e della consapevolezza di esserci ancora. Di essere assieme.
E’ difficile arrendersi al tempo che stringe le gambe e ora non ti permette di camminare più agilmente, mentre la mente vorrebbe correre a fare ancora quello che riuscivi a permetterti un tempo nelle tue infinite ore del giorno, lo vedo in quei tratti tristi che fanno capolino quando Sergio è a coltivare la terra che tu stesso gli hai insegnato ad amare e prima di te, nonno Giacomo.
E’ difficile per me figlia non poterti regalare un pò di gioventù per vederti ancora salire in sella alla tua bici e andare per campi e sentirti raccontare di chi erano quelle proprietà che ci circondavano.
Il tempo è così, ma sappiamo della fortuna che abbiamo papà, lo sanno i nostri occhi che si incrociano proprio ora mentre mamma ha diviso i piatti di pasta con il ragù alla calabrese che ci riporta il gusto di casa, di famiglia. Di noi.
(Racconto con cui ho vinto il Primo Premio nella sezione racconti al Concorso “ilsirmioneluganaXII°- El purtava le scarp del tennis”, premiazione avvenuta al Castello Visconteo di Pandino il 13/10)