Incastri

Maglia bianca, di quelle larghe che scendono giù da una spalla. 

Pantaloni blu e mio figlio in braccio.

Sala d’aspetto e le porte lucide.

Credevo sarebbe stato come le altre e invece dall’uscio alla mia sinistra uscì l’infermiera bionda a chiamarmi.

E lì si è fermato tutto.

Il dottore seduto dietro la scrivania, il monitor vicino al suo braccio e la penombra della stanza.

I miei genitori seduti ed io in piedi a gelare con quelle parole.

Non sapevo cosa dire.

Un anno fa.

L’intervento imminente, l’urgenza perché la vena del cuore di mio papà era satura e l’altra atrofizzata. 

Cercare di trasmettere controllo e sicurezza a lui, a mamma, a quella parte di me che ancora era bambina ogni volta che si trovava da sola con loro.

Lì in piedi ho dovuto abbandonarla, nonostante fossi mamma già da più di un anno.

La saliva in gola da riprendere mentre ci segniamo i contatti, come se le corse contro il tempo non bastassero, la disponibilità di quel dottore dal viso conosciuto e buono e tutto ora come una fotografia.

Il silenzio e la calma in macchina ed io che sento le lacrime salire ma bloccarsi, perché so che tutto andrà bene ma già ho paura e basta.

Poi arrivo a casa, poggio la borsa su quel letto dove ho dormito per vent’anni, le mani tremano anche se facciamo finta non sia successo nulla, almeno per un attimo e guardo il cellulare.

Un messaggio.

“Ciao come va?” 

Lo guardo, lo fisso e penso “Sembra arrivato al momento giusto!”

E allora rispondo dicendogli cosa era accaduto.

A lui.

Mi apro, sento l’ansia sciogliersi, mi dice che devo stare calma ed ogni giorno dopo quello mi sta vicino, mi chiede come va, come procede e quel sabato…sì, quel sabato, in cui andai a trovare mio padre in terapia intensiva, era come se lui fosse là fuori ad aspettarmi.

Mi sentivo forte perché sapevo che non ero sola.

Trovare qualcuno che ti sente, ti legge, ti ascolta, ti accoglie.

Un anno oggi.

Dentro.

Risate, desideri, sogni, pianti, gli occhi lucidi e distogliere lo sguardo.

Qualcosa di grande.

Infinito.

Mi racconto ogni giorno e non mi sembra mai abbastanza.

Come un abbraccio che non posso raggiungere ma di cui godo ogni volta che mi va, lo stringo dal petto.

Un calore che non posso sentire ma che mi calma quando tremo.

Guardo fuori dalla finestra.

Sono così piccola, la dolcezza delle mie lacrime sono quasi da adolescente.

E adesso come va? Dopo un anno?

Lo chiedo in un soffio a me stessa. Rivoglio indietro ogni piccola emozione vissuta perché mi manca, come quel romanzo mai scritto ma che a volte mi trovo a rileggere nella mia mente mentre sto poggiata sul lato destro del letto.

Dentro, dove si può custodire di tutto.

Le persone migliori restano gli scrigni più preziosi da accarezzare e aprire per guardare i gioielli che hanno da regalarci.

Lui. Eterno.

Non è perfezione ed è proprio questo il bello.

Un singolo pezzo di puzzle si può incastrare solo con un altro pezzo e non con tutti.

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2020-08-27T21:56:35+01:00