Mi sciacquo il viso. Il caldo che circola in ufficio mi fa seccare la pelle, l’aria viziata mi fa uscire da quelle quattro mura sempre sfinito che tornare a casa è ossigeno puro.
Rientrare e sapere che poi troverò il sorriso del mio bambino mi ricarica totalmente.
Sono felice.
Non avrei mai immaginato potesse essere così, l’essere padre.
Desideravo diventarlo, volevo qualcuno con cui poter condividere me stesso, le mie passioni e tornare ad essere bambino a mia volta, rispolverare i miei vecchi lego che mia mamma teneva in una scatola su in soffitta, stringere tra i polpastrelli i peluche che hanno contornato la mia infanzia.
Sorridere alla vita e pensare che esistono progetti molto più grandi di quelli che negli anni ho studiato, di quelle scartoffie che spesso avrei voluto accartocciare tra le mani. Ritrovarmi con il senso delle cose, anche quelle più banali, stringere le sue dita tra le mie e osservare come può essere morbida la sua pelle sia al tatto che alla vista. Sorprendermi con lui che mi guarda e sorride e che al mattino sembra voglia dirmi “Papi resta con me che voglio giocare!”, imbracciare la chitarra e strimpellare del rock per fargli amare fin da subito la stessa musica che amo io.
Sarà facile proteggerlo? Fare in modo che la sua salute sia un’amica fidata con la quale fare passi da gigante? Restare al suo fianco quando comincerà a voler andare poco più in là da solo?
Ci penso mentre lo specchio mi rimanda un viso molto stanco, la settimana fortunatamente sta per terminare e non vedo l’ora di godermi la mia famiglia, di essere le braccia calde in cui ci stringiamo nel nostro “abbraccione famiglia”, fare naso-naso al mio cucciolo, pettinargli il ciuffo all’insù e fargli il solletico sotto i piedini, con la mia barba.
Accarezzargli le manine che mi piace chiamare “panini con le unghie”, rilassarmi e non pensare a niente, neppure parlare, accoccolarmi e basta.
Perché essere felici non ha un prezzo, ma la dignità di non dover spendersi.
(Dall’esperienza di G.)