Una cartina poggiata alla scrivania, guardavo un luogo che non avrei mai visitato, una città che sebbene lontana sarebbe rimasta là, un nome e nient’altro.
Quella sera e il buio fuori, avevo bisogno di parlare, il cellulare e la voglia di una voce amica.
Cosa sarebbe stato? In fondo era già successo altre volte ma non avrei mai potuto immaginare sarebbe stata l’ultima.
Ridere.
Una telefonata ricca di risate, come se il tempo ci avesse visti seduti ad un tavolino di un bar magari in riva a quel mare romagnolo come è lui, quel suo accento forte condensato alla voce adulta e ispida, grattata dal fumo delle troppe sigarette fumate lungo le ore del giorno dove la sua solitudine scomoda annaspava, in una casa dove un colore importante era quello rosso dei capelli di sua madre Beatrice.
La solitudine rotta quella sera dalle nostre risate, lungo una cornetta che fisicamente non esisteva ma nel volume di voci che mai dal vivo si sarebbero intrecciate e poi perse in più di dieci anni di lontananza.
Si avvicina quel giorno. Tra poco lui compirà quarant’anni e ancora a volte come un eco dentro riverbera quella sera ed io che provo ad intonare il suo accento. Immagino e sotto le dita che carezzavano la cartina per un luogo mai visitato, si accartoccia la voglia di sapere che fine ha fatto lui.
Spesso ho creduto che la solitudine l’avesse ingoiato, sotto le sue risate simpatiche c’era il nervoso verso una vita che spesso gli aveva portato via tutto.
A quel padre mai conosciuto in realtà che era inciso sul suo volto, lungo quelle vene del viso nascoste dal velo di barba, a quel tempo di ragazzo che aveva sbagliato a spendere perché voleva solo essere libero.
Rintocchi di parole e veli che ritornano, la mia adolescenza ora che sono in attesa della vita, ora che alzando gli occhi al cielo sorrido e penso se mai capiterà quel giorno di scoprire il sorriso di mio figlio e pensare alle candeline di quel romagnolo che rideva forte senza però fare sentire le sue paure.